«Il sole bisogna conoscerlo bene, bisogna conoscere bene i contrasti tra
luce e ombra, e noi italiani, che conosciamo il sole del sud e le nebbie
del nord, difficilmente sbagliamo. Non sbagliamo perché siamo abituati a
lottare contro gli scherzi della luce del sole e contro l'azzurro del
nostro mare». Amava il cinema, la vita e le donne Tonino Delli Colli.
Con lui scompare un altro fondamentale pezzo della nostra storia del
cinema, di quel periodo forse irripetibile nel quale il mondo guardava
con ammirazione alle opere dei nostri registi. Lui sapeva dipingere con
la luce: lo ha dimostrato tanto nei paesaggi del Far West quanto con le
figure spesso ieratiche dei bianco e nero pasoliniani, passando per le
malinconiche atmosfere di Fellini.
Romano di nascita (classe 1921), Tonino Delli Colli arriva a sedici anni
a Cinecittà, assistente operatore di Ubaldo Arata e Anchise Brizzi,
(«fui raccomandato da un'amica di mio padre che lavorava a Cinecittà»).
Pe alcuni anni ha lavorato in tandem con suo cugino Franco Delli Colli,
scomparso l'anno scorso. L'esordio come direttore della fotografia è nel
1943 con “Finalmente sì!” dell’ungherese Laslo Kish. Nel 1952 gira il
primo film italiano a colori (Ferraniacolor) "Totò a colori" di Steno.
Al genio napoletano, durante le riprese, andò a fuoco il parrucchino.
Troppe le lampade puntate.
«È l'ambiente che inevitabilmente cambia lo stile della
fotografia. Un cow boy non si può fotografare come un borgataro romano.
Ed è chiaro che la Monument Valley non è Torre Spaccata. Il diverso modo
di illuminare viene da sè. Ed è quasi automatico». C’è la sua mano in
grandi successi di Sergio Leone “Il buono, il brutto e il cattivo”
(1966), “C'era una volta il West” (1968) e “C'era una volta in America”.
«Era un artista molto pignolo - diceva di Sergio Leone - Curava tutto
ciò che faceva nei minimi particolari, era uno stacanovista. Voleva i
primi piani con i peli della barba ben in evidenza. Facevo tutto per
accontentarlo fino all'impossibile».
Ma fu con Pasolini che ebbe un sodalizio totale, lavorando in 11
dei suoi 14 film. Indimenticabile, per esempio, il Totò di “Uccellacci e
uccellini” (del ’66). «Spesso con Pier Paolo sceglievamo per un film un
pittore e questo facilitava molto le cose. Era un'indicazione che valeva
per me come per il costumista, lo scenografo, l'arredatore, eccetera. Ad
esempio per “Mamma Roma” la scena del ragazzo morto steso sul tavolaccio
con le gambe e i piedi in primo piano era presa dal Mantegna». Con il
poeta di Carsarsa Delli Colli si dava del lei e girò anche “Salò o le
120 giornate di Sodoma”, l’ultimo, che quest’anno, restaurato, passerà
alla Mostra del Venezia. Sarebbe stato un invitato d’onore ma forse
avrebbe declinato l’invito.
Aveva smesso di lavorare con “La
vita è bella” di Roberto Benigni, nel 1997, lo stesso anno di “Marianna
Ucria” di Roberto Faenza. Il cuore faceva le bizze. Nessun altro poteva
più servirsi della sua arte, che aveva illuminato i film del dopoguerra
di Dino Risi e Mario Monicelli, poi Federico Fellini e le nuove leve,
Wertmuller, Bellocchio, Ferreri, quelle che avevano ridato linfa al
nostro cinema, per arrivare a Giuseppe Tornatore.
Numerosi i registi stranieri che lo hanno chiamato a lavorare,
quando non era impegnato in Italia. Tra loro Louis Malle con “Tre passi
nel deliro” del '67, Orson Welles con “Otello”, J. Jacques Annaud in “Il
nome della rosa” del '86, Roman Polanski in “Luna di fiele” del '92. Nel
suo palmares manca un Oscar, sebbene Benigni gli abbia dedicato quello
della “Vita è bella”. Passando in rassegna i sei Nastri d'argento e i
quattro David di Donatello, scorrono le immagini del nostro cinema
migliore: “Il Vangelo secondo Matteo” di Pasolini, “La Cina è vicina” di
Bellocchio, “Storie di ordinaria follia” di Ferreri,
“C'era una volta in America” di Sergio Leone.
L’ultimo premio lo aveva
ritirato pochi mesi fa a Los Angeles. Glielo hanno consegnato gli
addetti ai lavori, quelli che in America si chiamano “cinematographer”,
da noi direttore della fotografia. Oppure artigiano della luce, come
forse amava definirsi, lui che andava orgoglioso di non aver mai
studiato e di aver fatto pratica sui set, 130 film in 60 anni. Adesso ha
chiuso bottega.